Modelli impossibili: quando in passerella ci sono solo gli estremi

La cosa che più mi è saltata all’occhio, alla fine di quest’ennesima fashion week milanese, è stata la presenza in passerella di donne (in verità anche uomini) dalle fisicità molto molto simili e molto molto magre. Filiformi, oblunghe, senza troppe curve e con molti spigoli. Niente di nuovo, direte voi; ed effettivamente no, non è niente di nuovo. Eppure, dopo un paio di anni in cui la parola “inclusività” ha fatto tendenza e portato in passerella corpi e età disparate, facendoci credere ad una moda aperta ed illuminata, ritornare ai vecchi modelli…mi ha fatto un po’ storcere la bocca.

MANNEQUIN: STORIA DI MODELLE

Un passo indietro nella storia ci riporta all’Europa del XIV secolo, anno in cui il Sig. Worth, primo stilista considerato il padre dell’alta moda, chiese a sua moglie di “indossare” i capi da lui disegnati. Fino ad allora gli abiti venivano presentati sui manichini, in un primo momento su quelli piccoli, per far vedere l’abito “in scala”, poi su quelli “a misura“. Ma è con le “house model” che ufficialmente Worth dà inizio a questa pratica comune, che da allora venne adottata da tutte le case di moda parigine, dando il via a quella che è diventata una fortunata professione per molte (ringraziate Worth, care le mie top model 😉 ). Il dato interessante era che allora non esistevano requisiti di misurazione standard e la maggior parte dei designer utilizzava donne di taglie diverse per dimostrare la varietà dei loro modelli. Una scelta talmente sensata che fu abbandonata nel corso degli anni. Le modelle, da semplici manichini viventi, grazie alla fotografia di moda, hanno trovato un mercato in espansione sotto vari aspetti. Non solo indossatrici, ma vere e proprie figure di riferimento, tanto che da corpi anonimi e mal pagati, sono diventate personalità riconosciute e dai caché elevati. Ricordiamo, negli anni 40, le prime “top” model del mondo: Bettina Graziani, Barbara Goalen e Lisa Fonssagrives. Da qui alle prime agenzie di moda il passo è stato breve, in un’escalation che ha fatto la fortuna di tantissimi imprenditori (e imprenditrici), oltre che di tantissime modelle. Le fisicità erano disparate e, come sempre accade nella moda, c’è stato un alternarsi di esempi più androgini e maschili con corpi più sinuosi e femminili. Ricordo con piacere gli anni 90 e le “super top“, da Cindy Crawford a Naomi Campbell, da Linda Evangelista a Claudia Schiffer, iconiche, incredibili ma tutto sommato umane. Non così umane, invece, e sopratutto non così in salute, sembravano le modelle in voga negli anni 2000, tanto che il British Fashion Council fece firmare ai brand un contratto che impediva di usare modelle di età inferiore ai 16 anni o che sembravano avere un disturbo alimentare. Tanti i paesi che hanno seguito l’esempio britannico, emanando un requisito di indice di massa corporea minimo (che non so a quanto sia stato fissato, ma temo qualcuno abbia dimenticato questo dettaglio). Questo perché, nel tempo, si sono verificati numerosi casi di modelle affette da anoressia che molto spesso hanno portato anche alla morte. Nel tempo sono stati standardizzati dei requisiti di altezza e peso, sopratutto per le passerelle (per i servizi fotografici o altri tipi di eventi non c’è questa rigidità), ed è forse questo che ha portato ad un’uniformità pericolosa nella scelta e nella proposta di determinati “modelli”. Modelli che, proprio come dice la parola, diventano esempi di riferimento per moltissime persone, sopratutto giovani e adolescenti…non senza provocare danni.

Viene da chiedersi, a questo punto: perché seguire in questa direzione pericolosa e spersonalizzante? Davvero gli abiti stanno bene o vengono presentati meglio solo indosso a delle figure oblunghe e dalle proporzioni spesso lontane dalla media della popolazione mondiale? Tutto inizia, anche, tra i banchi delle scuole professionali, quelle che andranno a tirare fuori gli “stilisti” di domani…

DAI BANCHI DI SCUOLA ALLE PASSERELLE: LE 9 TESTE E MEZZO

Che non ero una cima a disegnare, penso di avervelo già confessato. I miei figurini erano sempre “tozzi“, sgraziati e troppo realistici. Questo mi dicevano alcuni professori. Le lezioni di figurino iniziano con un’interessante introduzione sull’anatomia e sulle proporzioni del corpo umano: il corpo umano è proporzionale a 7 teste e mezzo, cioè l’altezza di una persona è uguale all’altezza della sua testa moltiplicata per 7,5. Per disegnare un figurino, dimentica il 7 e fai pace con il nove, anche il nove e mezzo: la figura, così disegnata, risulta più slanciata e permette di vedere meglio i dettagli del capo. Questo è quello che ti dicono. Io non c’ho mai creduto. Ho visto disegni, bellissimi, disegnati con proporzioni di 12 teste (praticamente figure stretchate all’infinito) che erano tutte gambe e braccia lunghissime, mentre i vestiti erano appoggiati su un busto risicato, dove dell’abito si percepiva a mala pena il colore e la forma. L’illustrazione di moda è una cosa, il figurino, sopratutto se è funzionale alla creazione reale di un modello, può anche essere ridimensionato in un’ottica non dico umana, ma nemmeno completamente aliena. Anche perché, quel che succede è che, disegnando a questo modo, l’occhio si abitua a vedere queste proporzioni; le stesse che poi si vanno a ricercare quando si deve scegliere il modello o la modella che dovranno indossare i capi in passerella.

Passerella che, va detto, è un momento importante per ogni designer/brand. È l’evento di punta, è lo show, lo spettacolo, il sogno sul quale si lavora da mesi e che si esaurisce in dieci minuti di camminata. Tutto, per quell’occasione, deve essere perfetto e curato nel minimo dettaglio. In quanto presentazione, come quando si organizza una festa o una cena, vogliamo che tutto sia al meglio. E non c’è nulla di male. Quello che c’è di stridente è il fatto di ricorrere sempre al solito modello, che nel tempo è diventato sempre più simile a quel figurino di 9 teste e mezzo disegnato sul foglio…sono forse quelle le uniche proporzioni del sogno? Se un tempo i campionari ed i prototipi erano realizzati in taglia 42, che almeno rappresentava una media, adesso siamo scesi alla 38, quando non addirittura alla 36. C’è bisogno davvero? E poi, c’è bisogno davvero che tutti i brand scelgano modelle della solita taglia? Qualcuno che si azzarda ad uscire dagli schemi, senza saltare necessariamente da un estremo all’altro?...

INCLUSIVITÀ: PER MOLTI, MA NON PER TUTTI

Una volta criticata e messa alla gogna pubblica, la Moda ha anche la capacità camaleontica di assecondare le richieste del pubblico per calmare le acque…e poi tornare a fare i cazzi suoi allegramente! È quanto successo nelle stagioni passate dove, sull’onda dei movimenti per l’inclusione di taglie anche più “umane”, tutti hanno sfoggiato esemplari più o meno curvy durante le sfilate. Curvy, plus size, in là con gli anni, con i capelli bianchi…insomma, hanno abbracciato le donne, quelle vere, per democratizzare la moda. Applausi. Tutti felici. Tutti a parlarne bene, di questo gesto fatto più per facciata che per convinzione. Anche perché, a un paio di fashion week di distanza, sono tornati tutti (impressionante, a parte Dolce&Gabbana e qualche altra perla rara) con modelle più oblunghe, senza forme e tristi del solito. Com’è possibile? Possibile. Perché saltare da un estremo all’altro non è mai una scelta che premia sulla distanza. E questi cambi repentini non sono mai motivati da una convinzione di fondo. Peccato.

Francesca Marchisio, Altaroma 2023

Non si può nemmeno entrare troppo nel merito di come una maison di moda decide di rappresentare il proprio modello femminile: ogni designer sceglie come e cosa rappresentare, facendo riferimento all’immaginario estetico e alla storia che vuole raccontare (che potrebbe anche cambiare di volta in volta, anzi, sarebbe un atto creativo e narrativo divertente, almeno non ci assuefacciamo alle solite cose…).

Ma quando più del 90% dei marchi usa lo stesso modello…beh, forse il minimo è farglielo notare. Proprio perché quel modello, che è quello del mainstream, alla fine, sarà quello ritenuto in qualche modo “vincente”, quello che “funziona”, quello che “va”. E la moda non può ignorare l’impatto sociale delle sue scelte. Fortunatamente esistono situazioni alternative in cui gruppi di designer propongono altri tipi di modelli, più umani, più vicini a quelle 7 teste e mezzo che poi indosseranno gli abiti nella vita di tutti i giorni 😉 Peccato che su quelli siano in pochi a puntare i riflettori.

Obiettivamente ci vuole coraggio ad uscire fuori da certi schemi. Ci vuole coraggio ad uscire dalla via segnata da altri e venduta come quella giusta perché “così si è sempre fatto e così si fa“. Ci vuole coraggio a fare un campionario di un’altra taglia. E io, questo coraggio, lo vedo sempre più nelle piccole realtà che nei Grandi Signori Chiacchieroni della Moda. Ai quali vorrei ricordare che il loro antenato e predecessore “utilizzava donne di taglie diverse per dimostrare la varietà dei suoi modelli“.

Possiamo prendere spunto dal passato per costruire un futuro meno omologato e meno estremo?

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